Quello che ho visto oggi mi ha scosso nel profondo, lasciandomi con una miriade di riflessioni che continuano a risuonare dentro di me. Processo a Dio di Stefano Massini è stato un viaggio nei meandri più oscuri della psiche umana e nel conflitto tra l’uomo e il divino, un processo che non si limita a giudicare una figura astratta, ma mette sotto processo l’essenza stessa della vita, della sofferenza, della speranza e del non-senso che pervade la nostra esistenza.
Elga Frisch, protagonista e voce di tutte le vittime, decide di mettere Dio alla sbarra, accusandolo di assenza e di indifferenza. La sua rabbia è un fiume in piena, travolge tutto con una forza che non lascia respiro. Le accuse sono terribili, eppure inevitabili: schiavitù, massacro, tradimento. Ma c'è qualcosa di ancora più devastante, una ferita che si fa più profonda con ogni parola: il non-senso che ha avvolto tutto, la consapevolezza che la morte non ha significato, che l'orrore è stato, forse, il solo motore di quella macchina infernale.
Quello che colpisce di più è come questo processo sembri un allegoria della nostra vita stessa: un dramma che si ripete, una lotta senza fine tra il bene e il male, tra la speranza e il disincanto. In ogni personaggio c'è un frammento di noi stessi.
Il silenzio di Dio, rappresentato dal capitano Reinhard, aleggia come una nube opprimente sopra di loro. Un silenzio che non è assenza, piuttosto un grido soffocato, un'incomprensione che nessuna parola può colmare. La scena è costantemente attraversata da questo vuoto, che alla fine sembra essere la risposta di Dio, una risposta che si fa più insostenibile del suo stesso silenzio.
La scena finale non è una risoluzione, ma piuttosto una continua domanda che si estende oltre la tragedia della Shoah, un invito a interrogarci sul nostro posto in un mondo che ci sfugge. Chi muove i fili delle nostre vite? Se siamo marionette, qual è il nostro scopo? È come se lo spettacolo ci avesse strappato il velo, mostrando la danza macabra che ogni giorno siamo costretti a ballare, senza sapere se davvero abbiamo il potere di cambiare la musica. La tragedia non è solo quella dell’Olocausto, ma quella dell’uomo che ogni giorno si confronta con il male, con il senso di impotenza, con l’incapacità di trovare un senso a tutto questo.
Processo a Dio non è solo una riflessione sulla Shoah, ma una riflessione universale sul dolore, sul male, sul silenzio e sulla ricerca di un significato in un mondo che sembra non averne. È uno spettacolo che non ti lascia indifferente, che ti costringe a guardare dentro te stesso e a chiederti se, nel nostro quotidiano, non stiamo facendo, magari senza rendercene conto, lo stesso processo a Dio.
Gabriella Carol Vitale
Classe 3^G
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